(Il basco azzurro) – È ormai storicamente provato dalla documentazione ufficiale che durante l’ultimo conflitto mondiale esisteva, sin dall’inizio, un collegamento segreto e diretto tra la monarchia e la massoneria italiane e le potenze alleate.
Dalla fine del 1942 tale contatto, intensificandosi, fece spesso dimenticare ai responsabili italiani qualsiasi misura di sicurezza, consentendo ai vertici militari e politici alleati di conoscere anche i più intimi e vitali segreti italiani. Tra i mesi di aprile e maggio 1943 una missione di Ufficiali italiani raggiunse, nel massimo segreto, Algeri per definire con il nemico lo sbarco in Sicilia nei minimi dettagli. La missione era guidata dal gen. Giuseppe Castellano e comprendeva anche il capitano Vito Guarrasi e il Tenente Galvano Lanza di Trabia.
La prova incontestabile che elementi italiani trattarono con gli Alleati molto tempo prima della data riportata dalla storiografia ufficiale e che lo fecero in territorio alleato e non neutrale, figura solamente nei documenti alleati. L’episodio risulta maggiormente grave e odioso per il fatto che mentre ciò accadeva i soldati italiani e tedeschi, ancora alleati, combattevano e morivano nell’ultimo feroce scontro con gli anglo-americani in Tunisia!
Insomma, se era comprensibile il desiderio di molti italiani di finirla con il Fascismo, non si poteva pensare ad una politica così idiota e votata al massacro che, alla fine, poteva nuocere proprio ai nostri sfortunati e ignari soldati. Alla lunga, la politica del “fine che giustifica i mezzi” distrugge il fine! Significa, anche, che i giochi iniziati subito dopo la dichiarazione di guerra, erano stati ormai conclusi e si poteva già intravedere il destino oscuro dell’Italia. Castellano, siciliano dai neri capelli sempre impomatati e incollati al cranio, era un giovane e brillante generale di Brigata dello Stato Maggiore Generale. Erano a tutti noti i suoi maneggi ad altissimo livello, la sua vicinanza all’alta borghesia e ai latifondisti siciliani, il suo “sentire mafioso” e, non ultimo, che fosse un Gran Maestro della massoneria internazionale così come, del resto, lo era un buon numero di generali e ammiragli italiani, oltre a Badoglio e a re Vittorio Emmanuele III. Braccio destro del gen. Vittorio Ambrosio, dal mese di gennaio 1943 nuovo Capo di Stato Maggiore Generale al posto del filo-tedesco Maresciallo Cavallero, Castellano era il suo uomo di fiducia nei tortuosi e segreti maneggi sul modo meno rischioso per abbattere Mussolini e il Fascismo e giungere “ad ogni costo” alla pace con gli Alleati.
L’avv. Vito Guarrasi e il principe Galvano Lanza di Trabia, rappresentanti autorevoli del Partito Unico Siciliano che si batteva, inizialmente, per l’indipendenza della Sicilia, erano le giuste persone in grado di superare in ogni occasione qualsiasi divisione della società siciliana. Essi racchiudevano in sé parecchie qualità: la borghesia, il primo; la nobiltà, il secondo, perennemente agganciate al potere di qualsiasi colore e orientamento; la massoneria quale anello di congiunzione anche con le logge estere; e, infine, l’abilità di farsi ascoltare e obbedire da Cosa Nostra. Nei due immensi feudi della famiglia Lanza di Trabia, in provincia di Caltanissetta, il “Micciché” e il “Polizzello”, svolgevano, infine, funzioni di gabelliere, cioè di comando, i due “mammasantissima”: il boss di Villalba, nel centro feudale della Sicilia, Calogero Vizzini, meglio conosciuto come “don Calò”, che vantava una parentela di potenti preti e avvocati, e il suo degno compare, Giuseppe Genco Russo, boss di Mussomeli.
Entrambi “capi bastone” della mafia del centro della Sicilia, amici e anello di congiunzione con le cosche di Cosa Nostra siculo-americane e, come vedremo in seguito, fidati amici del mafioso americano di origine piemontese, Ten. Col. Charles Poletti, futuro responsabile politico e amministrativo alleato dell’isola, assoluto padrone e riconosciuto “viceré” di Sicilia.
Tradizione Formazione Rivoluzione
Nell’oliveto di Cassibile, presso la tenda dove è stato appena firmato l’armistizio tra il Regno d’Italia e le Forze Alleate, i firmatari posano per una foto. Da sinistra, il Brigadiere generale inglese Kenneth Strong, il generale italiano Giuseppe Castellano, il generale statunitense Walter Bedell-Smith (futuro direttore della CIA) e il funzionario del Ministero degli esteri italiano Franco Montanari, interprete per Castellano.

dell’Esercito italiano Castellano (in abito borghese scuro) con accanto in abito civile chiaro
Vito Guarrasi.
Giovedì 2 settembre 1943, tutto era ormai pronto a Cassibile. Gli Alleati erano sicuri di ottenere la firma italiana sulla resa incondizionata. Castellano e il suo piccolo seguito – il Magg. Marchesi, longa manus del gen. Ambrosio, e il Console Montanari, longa manus de «La bandiera della Tradizione», il maresciallo Badoglio, in veste di interprete, nonché Guarrasi e Lanza di Trabia – sin dal mattino avevano raggiunto in gran segreto il Quartiere Generale degli Alleati in Sicilia. L’aereo italiano, pilotato dal Magg. Vassallo, era riuscito ad eludere la sorveglianza tedesca ed era atterrato sul campo d’aviazione realizzato dagli Alleati nei pressi del palazzo nobiliare dell’ingegnere Corrado Grande, Marchese di Cassibile, ai piedi di Torre Cuba, a qualche chilometro a nord dalla foce del fiume Cassibile. Le tende dello Stato Maggiore Alleato erano installate nell’uliveto “delle Vignazze”, in contrada S. Michele. Nonostante il gran caldo snervante, i rappresentanti alleati erano piuttosto nervosi e inviperiti, giacché Badoglio, con stupida furbizia, alla partenza da Roma della missione italiana, non aveva fornito a Castellano le credenziali necessarie per siglare il trattato d’armistizio! Castellano, uomo intelligente ma poco scaltro, aveva sostenuto che non era prevista alcuna firma. Aveva però intuito alle prime battute della sua insostenibile commedia che era meglio non insistere! Il generale Eisenhower, e il suo vice, Maresciallo Alexander, giunti da Algeri per assistere alla cerimonia, s’indispettirono per il grave comportamento italiano. Alexander aveva nervosamente agitato il frustino davanti all’imbarazzato Castellano apostrofandolo bruscamente: “Siete dei rappresentanti o delle spie? So che non avete i pieni poteri e questa è una maniera molto buffa di trattare da parte del vostro governo”. Ma anche Eisenhower, nelle sue memorie pubblicate nel 1948, tradisce impazienza e diffidenza affermando: “…incominciò una serie di negoziazioni, comunicazioni segrete, viaggi clandestini di agenti segreti e frequenti incontri in nascondigli che, a leggerli nei romanzi, sarebbero stati derisi come melodrammi incredibili…
Gli italiani desideravano ardentemente di arrendersi, tuttavia volevano farlo solo dietro assicurazione che, nel momento della resa, una potente forza alleata sbarcasse nel continente, in modo che il governo stesso e le città fossero protetti contro le forze tedesche.
Di conseguenza, cercarono di ottenere tutti i particolari sui nostri piani. Noi non li volevamo rivelare poiché non era da escludersi la possibilità di un tradimento…”. In poche parole, gli Alleati non si fidavano né del capo del governo italiano, Maresciallo Badoglio, né del re, Vittorio Emmanuele III! E, in questo, essi nutrivano nei riguardi degli Italiani la stessa diffidenza, peraltro mai nascosta, dei tedeschi! Il vero motivo della segretezza alleata “a tutti i costi” era che con il loro sbarco in Sicilia, gli Alleati speravano, come poi puntualmente accadde, che Hitler per fronteggiare la successiva avanzata alleata su per lo “stivale” spostasse le sue divisioni dal fronte russo, alleggerendo la pressione sui sovietici, e dalla Francia, in previsione dell’invasione alleata in Normandia. Avevano, dunque, sufficienti motivi per rimanere “abbottonati” di fronte alla sfiduciata missione italiana e all’indeciso e voltagabbana governo badoglio. Nell’attesa che da Roma giungesse la delega fu giocoforza rinviare la cerimonia della firma di 24 ore. Questa venne apposta alle ore 17,15 del 3 settembre. Il documento in triplice copia dello “Short Military Agreement” (il famoso “Armistizio Corto”) giaceva su una cerata verde che ricopriva alcuni tavolini della mensa messi insieme per formare un lungo tavolo. Le foto storiche ci mostrano Castellano in un impeccabile doppiopetto nero e fazzoletto bianco nel taschino della giacca. Nelle altre istantanee figurano il vice comandante della forza d’invasione, Maresciallo Alexander, il Capo di Stato Maggiore alleato, gen. Bedell Smith, il comandante in capo, gen. Eisenhower, i due consiglieri civili, l’americano Robert Daniel Murphy e Harold Mc Millan, futuro capo del governo conservatore britannico. Sono presenti anche, seminascosti, due giovani palermitani con indosso l’uniforme italiana, il tenente Galvano Lanza di Trabia e il capitano Vito Guarrasi, figure apparentemente insignificanti ma, in effetti, in grado di amalgamare per il tornaconto proprio, degli “Amici dal sentire mafioso”, dell’allora traballante governo italiano e per gli Alleati gli interessi e le ideologie più disparati. Fino al 30 agosto Lanza di Trabia era stato fra i protagonisti, spesso poco convincenti, delle convulse trattative per giungere ad un accordo con gli Alleati. Il 24 agosto aveva accompagnato a Lisbona il generale Zanussi. Vi erano stati inviati perché mancavano notizie di Castellano (alcuni giorni prima inviato in Portogallo per lo stesso motivo) e ciò aveva fatto temere che la sua missione presso le ambasciate britannica e statunitense a Lisbona fosse sfumata. Ma era solo una scusa! Così Zanussi aveva ricevuto nella capitale portoghese il testo del famoso “Armistizio Lungo” e con Lanza di Trabia era stato poi trasportato ad Algeri. Da qui gli Alleati li avevano condotti, il successivo 29, a Palermo. Il giorno seguente il principe Lanza aveva raggiunto Roma, ma gli venne impedito di portare con sé il fondamentale e umiliante testo dell’“Armistizio Lungo”, del quale solo lui e Zanussi erano fin lì a conoscenza. Da Roma, Lanza di Trabia aveva fatto rientro in Sicilia.
Zanussi e Lanza di Trabia appartenevano alla fazione delle Forze Armate avversa ad Ambrosio e ai suoi piani, quindi anche a Castellano. Era la fazione legata al generale Roatta, il grasso e inquieto Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, promotore del viaggio di Zanussi a Lisbona, nel timore di essere tagliato fuori dalle nuove intese, e al generale Carboni, responsabile della difesa di Roma e già capo del Servizio Segreto. Intorno si agitavano i personaggi del vecchio e del nuovo SIM (Servizio Informazioni Militare), cioè di quello considerato vicino al nazifascismo e di quello vicino agli Alleati. Era la danza degli opportunisti e dei voltagabbana. In estate era stato liquidato il capo del SIM, generale Amè, il quale, nonostante i tentennamenti e spesso i suoi colpevoli silenzi, aveva però dimostrato lealtà e coerenza nel suo incarico. Lo avevano bollato di filo-nazismo. Con Galvano Lanza di Trabia stava anche il fratello minore, il Sottotenente Raimondo, membro dello staff di Carboni nel comando della difesa mobile di Roma. Nel periodo in cui Roatta era stato comandante della 6a Armata, in Sicilia, i due fratelli gli avevano presentato il loro amico e amministratore degli immensi beni di famiglia, il capitano Vito Guarrasi. In tal modo, l’anonimo capitano si era trovato proiettato nel promettente futuro italiano, che progettava l’abbattimento di Mussolini e, di conseguenza, la salvaguardia del latifondo, che il Fascismo aveva promesso di abolire.
La presenza di Lanza di Trabia e di Guarrasi sotto la tenda alleata di Cassibile significava al momento ben poco, a parte il passaggio di campo dall’ala Roatta all’ala Ambrosio. Il 3 settembre gli eventi immediati vennero determinati dal colossale equivoco fra “Armistizio Corto” e “Armistizio Lungo” (quest’ultimo verrà firmato a Malta il 29 settembre 1943 da Badoglio e da Eisenhower), provocando ancora e, nonostante la firma già apposta sul trattato, la morte di migliaia di inconsapevoli italiani. L’apparizione dei due riservati gentiluomini palermitani annunciava le alleanze segrete e i patti inconfessati che condizioneranno le vicende dell’Italia post-bellica fin dopo la nascita della Seconda Repubblica (disintegrazione della DC e nascita di FI), con la benedizione degli Alleati. Ma il primo e più odioso di tali patti fu la consegna della flotta italiana, per di più con l’obbligo di attraversare il Mediterraneo per andarsi “ad ancorare sotto i cannoni della fortezza di Malta”, come comunicò l’Ammiraglio Cunningham a Churchill!
In Sicilia, nonostante tutto, nulla era cambiato con lo sbarco degli Alleati, così come del resto durante il regime fascista! La sera del 10 luglio 1943, primo giorno d’invasione, dopo che i cannoni di circa seicento navi schierate davanti alle coste siracusane, e l’aviazione alleata avevano distrutto non solo le scarse fortificazioni costiere italiane, ma anche le città provocando oltre agli ingenti danni migliaia di morti e feriti, appena la 151a Brigata inglese di fanteria leggera “Durham” riuscì a costituire una “testa di ponte” sul litorale di Marina di Avola e nel contempo travolgeva i pochi anziani e male armati fanti italiani del 430° Battaglione costiero a Cassibile, alcune jeep con gli Ufficiali dello Stato Maggiore della 5a Divisione britannica raggiunsero il palazzo nel feudo del Marchese Corrado Grande.
L’ingegnere Grande
Era un antifascista dichiarato e apparteneva alla buona società di Siracusa. La sua famiglia, oltre ai latifondi posseduti nel siracusano, vantava poderosi agganci nell’alta società italiana e all’estero, in particolare in Gran Bretagna. Si era opposto al regime, senza tuttavia subirne alcuna conseguenza. Aveva sposato una splendida ragazza greca, la cui famiglia, appartenente all’alta borghesia ellenica, coltivava solide relazioni con la Gran Bretagna. Per proteggere il marito aveva aderito pubblicamente al Partito Fascista. Gli Ufficiali britannici, dopo aver tributato alla coppia gentilizia un perfetto saluto militare, avevano fatto largo al loro comandante, l’antipatico e arcigno gen. Montgomery che, dopo aver eseguito un profondo inchino e un galante baciamano alla padrona di casa, aveva iniziato a conversare nella sua lingua madre, perfettamente compreso e corrisposto dai padroni di casa. Il quartiere generale alleato venne stabilito nell’accogliente palazzo patrizio.
Nel 1972, la Commissione Antimafia si interessò del duo Vito Guarrasi e Galvano Lanza di Trabia:
“ …mentre Galvano Lanza di Trabia e Vito Guarrasi partecipavano alle trattative per giungere ad un armistizio, don Calogero Vizzini da Villalba, amministratore del feudo Polizzello di proprietà dei Lanza, svolgeva a livello tattico attività di preparazione dello sbarco degli Alleati in Sicilia…”. Ecco, dunque, la prova incontestabile della missione segreta dei nostri rappresentanti ad Algeri! Lo scopo da ottenere è secondo la Commissione Antimafia: “ …una sapiente gestione per salvare e triplicare in un secondo tempo i consistenti patrimoni che stavano dietro coloro che ad Algeri e a Cassibile trattano la resa con gli americani, i quali per facilitare il colloquio portano con sé il fior fiore del gangsterismo nordamericano di origine mafiosa…”.
Da allora (i due) costituiscono un binomio costante fino all’epoca attuale che caratterizzerà uno dei più interessanti gruppi di potere economico siciliani. Con il tempo, rimane sulla scena solo Guarrasi. Muore nel 1999. Mai un’intervista, una dichiarazione ai giornali o un’apparizione pubblica. Superbo, intelligente e scaltro come suo cugino Enrico Cuccia, sa di essere superiore per censo, cultura, fantasia e amicizie a tutti i livelli della società. Custode della storia segreta dell’Italia del dopo guerra, collabora allo statuto autonomista siciliano, viene consultato dal Blocco del Popolo di Togliatti e di Nenni, ascoltato consigliere di Mattei, leader e difensore dei proprietari delle miniere di zolfo della Sicilia, amico dei fascisti e, nel contempo, dei comunisti, angelo custode dei governi di centro sinistra e delle intese tra DC e PCI; amico degli “Amici” e dei “Bravi ragazzi”, è anche il geloso custode dei grandi misteri siciliani: la sparizione del giornalista Mauro De Mauro, l’omicidio del Commissario Boris Giuliano, i rapporti tra la mafia e il bandito Giuliano e dell’espansione della mafia. Egli è sempre e dappertutto invocato, temuto e interpellato da politici e feudatari.
Visse ottantacinque anni senza dover dare conto del suo passato a nessuno. «…il gen. Castellano insieme ai capi della mafia, presente Calogero Vizzini, si è incontrato con Virgilio Nasi, capo della ben nota “famiglia” Nasi di Trapani, e gli ha offerto di assumere la direzione del movimento per l’autonomia siciliana, appoggiato dalla mafia… Il gen. Castellano si è dato molto da fare per affrontare il problema siciliano e cercarne una soluzione. Egli ha stretto contatti con i capi mafia e li ha incontrati in più occasioni… Uno dei risultati di questi incontri è stato di chiedere a Virgilio Nasi di mettersi alla testa del movimento con l’obiettivo di diventare Alto Commissario per la Sicilia…». Il successivo rapporto del Console generale USA a Palermo Alfred Tyron Nester riferisce dell’incontro attraverso la relazione dell’OSS (il Servizio Segreto americano durante la guerra): «…Dopo tre giorni d’incontri segreti con esponenti della mafia a Palermo, il gen. Castellano, comandante della Divisione “Aosta” di stanza in Sicilia, ha tentato di stringere un accordo sulla futura designazione dell’Alto Commissario… Il candidato è un famoso siciliano, Virgilio Nasi, boss della “famiglia” di Trapani, il quale è stato avvicinato dal gen. Castellano, dopo che aveva affrontato questo tema con i grandi capi della mafia… Erano presenti due luogotenenti di Nasi, l’ex aiutante del gen. Castellano in Nord Africa e a Roma, il capitano Vito Guarrasi e l’avvocato Vito Foderà». Ed ecco di nuovo il riferimento, nella relazione dell’OSS, alla misteriosa missione in Algeri di Castellano e di Guarrasi per gli accordi sulla resa italiana. Secondo i documenti italiani, questa missione non è però mai avvenuta e Guarrasi non risulta aiutante di Castellano!
…Avevano iniziato la loro brillante carriera sotto una tenda militare alleata in un uliveto di Cassibile, divennero in poco tempo ricchi e temuti protagonisti della storia d’Italia… spesso di quella misteriosa e insanguinata!
Re, Ministri, Generali. Lo Stato in fuga
La Fuga di Pescara (di Silvio Bertoldi – illustrazioni di Rimigliano)


Alle cinque della sera dell’8 settembre 1943, Vittorio Emanuele III inizia a prepararsi a lasciare Roma. È un sereno mercoledì che prelude a un dolcissimo autunno, e il re ha 74 anni. Il ministro della Real Casa, Acquarone, ha telefonato al Quirinale è ritenuto più sicuro di Villa Ada, meglio trasferirvisi. Sarà il primo passo di un itinerario per altro previsto e destinato, nell’ipotesi, un conclusersi in Sardegna, per sfuggire a un eventuale cattura da parte dei tedeschi. Si è pensato a tutto nel caso di un abbandono della capitale: due cacciatorpedinieri (il Vivaldi e il Da Noli) hanno preso un bordo i sovrani a Civitavecchia e portarli alla Maddalena, beni e oggetti preziosi sono già presenti in Svizzera, sedici milioni, per affrontare le prime esigenze, diciassette valigie per il viaggio, carte e documenti in una borsa. Alle 18.15 precise la Fiat 2800 dell’autista Baraldi varca il portone della reggia. Vittorio Emanuele ed Elena si ritirano nei loro appartamenti. Il preludio della fuga di Pescara è questo.


Ma gli avvenimenti precipitano. La cronaca segnala l’improvviso ritorno del sovrano a Villa Ada, come per un cessato allarme, e subito dopo l’altrettanto improvviso ritorno al Quirinale per un improvvisatissimo Consiglio della Corona. È ormai certo che Eisenhower annuncerà alla radio in serata la firma dell’armistizio da parte dell’Italia e coglierà di sorpresa governo e militari, impreparati all’evento e chissà perché convinti che l’annuncio sarebbe stato dato il giorno 12.
Nulla è stato fatto di quanto previsto dagli accordi sottoscritti per fornire i mezzi richiesti dagli Alleati in vista del lancio su Roma di una divisione paracadutisti: e quando, la sera del 7, due ufficiali americani: i colonnelli Maxwell Taylor e Gardiner, si erano presentati segretamente nella capitale per concordare le comuni iniziative, tutti sono caduti dalle nuvole. Il generale Carboni, comandante della difesa di Roma e delegato a riceverli, era a una festa; il capo di stato maggiore generale Ambrosio proprio quel giorno era a Torino per un trasloco; Badoglio era a letto dalle nove, Roatta cenava in famiglia e per quei due ospiti annunciatissimi era a disposizione soltanto un colonnello che non parlava inglese e un principesco banchetto con cui si sperava di addolcire la loro irritazione.


Alla fine arrivò Carboni, andarono tutti da Badoglio e lo svegliarono. Lui scese in vestaglia supplicando che si rimandasse ogni cosa, in quelle condizioni c’era il rischio d’un fallimento, i due americani spedissero per carità ad Eisenhower un telegramma di proroga, almeno per salvare i loro paracadutisti. Sia pur di malavoglia, il telegramma venne spedito e quella fu la prima delle sciagurate mosse del tragico balletto alla ricerca di una salvezza purchessia.
Il Consiglio della Corona vede seduti intorno al re il primo ministro Badoglio, i generali Ambrosio (capo di stato maggiore generale) , Carboni (capo del servizio segreto militare), De Stefanis (per il capo di stato maggiore dell’esercito: Roatta) e Puntoni (aiutante di campo del re) , il ministro degli esteri Guariglia, con i tre ministri militari, De Courten della Marina, Sorice della Guerra e Sandalli dell’Aviazione, più Acquarone e un giovane addetto di Ambrosio, il maggiore Luigi Marchesi. Comincia il re, annunciando la firma dell’armistizio e i ministri militari, sbalorditi, esclamano: «Armistizio? Noi veramente non ne sapevamo nulla».


Non ne sa niente nessuno, forse fingono, ma ormai è tardi per meraviglie e recriminazioni. Si spera solo che Eisenhower accetti la proroga, tutto dipende da lì: e quando il giovane maggiore Marchesi rientra annunciando che Eisenhower ha respinto ogni richiesta con un agghiacciante ultimatum di una durezza mozzafiato (nota 1) e proprio in quel momento da Radio Algeri sta dando l’annuncio dell’armistizio, perdono tutti la testa.
Carboni propone di sconfessare la firma già messa, si dia la colpa a Badoglio dicendo che avrebbe agito all’insaputa del governo. Ambrosio è d’accordo, qualsiasi vergognosa trovata pur di non affrontare la reazione dei tedeschi, ai quali fino al mattino di quello stesso giorno il re aveva assicurato che la guerra continuava come aveva proclamato il 25 luglio (mentendo) il maresciallo Badoglio.
Solo all’intraprendenza dello sconosciuto Marchesi che fece osservare quanto ignobile fosse quella disperata ciambella di salvataggio in extremis, ricordando tra l’altro che gli Alleati avevano filmato la resa di Cassibile e conservavano tutti i documenti sottoscritti dagli italiani per sbugiardarci, si dovette se quei folli propositi furono accantonati e il re dicesse: «L’armistizio fu firmato e si deve onorare l’impegno. Si terrà la parola». A quel punto, ciascuno per sé e Dio per tutti. I sovrani passeranno al ministero della Guerra ritenuto più sicuro, altri li raggiungeranno alla spicciolata, ma ci si dimenticherà di avvisare i ministri e perfino quello degli Esteri, Guariglia, venne abbandonato a Roma. Badoglio andò alla radio a leggere il suo messaggio, aspettando pazientemente che finisse il programma di canzoni. Alla fine dell’ultima canzone: “Una strada nel bosco”, dopo una brevissimo annuncio dello speaker Giovan Battista Arista, Badoglio lesse il comunicato, che fu anche registrato per poter essere ritrasmesso, e se ne tornò subito al Ministero della Guerra. Nella notte accorre affannato Roatta a comunicare che i tedeschi stanno attaccando dovunque, hanno già preso Gaeta e Civitavecchia, bisogna lasciare subito la capitale e l’unica via libera è la Tiburtina che porta a Pescara. Bisogna partire subito e alle 4.50 del mattino del 9 settembre prende il via la carovana, con in testa l’auto del re, della regina e del generale Puntoni, poi le altre con Badoglio, gli aiutanti di campo e il principe Umberto che si vergogna della fuga e vorrebbe che almeno un Savoia restasse a Roma. Ma il padre gli ordina di seguirlo, S’at più at massu , se ti pigliano ti ammazzano, alludendo ai tedeschi.


MARIO ROATTA
Seguono valletti, cameriere, bagagli, autisti. Seguono, più tardi, i generali. Sul molo di Ortona, nella speranza di imbarcarsi sulla «Baionetta» col re, saranno duecento. Lo stato maggiore è stato sciolto, il comando supremo non esiste più: e nessuno che abbia avuto un moto di dignità, che abbia pensato che si sarebbe dovuto combattere anche se la causa era persa, e non abbandonare l’esercito al suo destino per salvare la pelle.
Il viaggio fu descritto come avventuroso, con soste all’aeroporto di Pescara, trasferimenti nell’ospitale villa della duchessa di Bovino a Crecchio in attesa dell’arrivo della corvetta «Baionetta» per portare la comitiva in salvo a Brindisi: con l’indegno assalto alla nave sul molo di Ortona da parte di fuggiaschi inferociti contro il re e Badoglio che li lasciavano a terra. Si imbarcarono solo in 59, gli altri abbandonarono automobili e bagagli e pensarono a mettersi in salvo in qualche modo.
Resta il mistero su quella fuga così oscura, su quella Tiburtina che non doveva essere controllata dai tedeschi e invece li vedeva transitare ininterrottamente. Le macchine reali furono fermate per tre volte dai tedeschi e sempre lasciate proseguire. Ogni volta si affacciava uno dei fuggitivi e diceva «Ufficiali generali». Bastava per passare. Il viaggio sulla «Baionetta» fu seguito momento per momento da un ricognitore della Luftwaffe, dal quale furono scattate le fotografie che mostrano i reali seduti tristemente a poppa. Ce n’era abbastanza per sospettare che quel «trasferimento» fosse stato concordato con Kesselring, la salvezza dei sovrani e del governo in cambio dell’abbandono di Roma?


Fu lo storico Ruggero Zangrandi il primo ad avanzare questa ipotesi, quando nel dopoguerra alla testa delle istituzioni erano tornati proprio coloro che erano fuggiti al momento del pericolo. Allora la sua tesi fu considerata eretica e ingiuriosa, Zangrandi fu trascinato in tribunale, condannato e diffamato al punto di concludere la vita col suicidio. Al quale concorsero certamente le amarezze patite e il discredito riversato su di lui. Oggi molti cominciano a credere che forse qualcosa di vero in quella sua tesi poteva esserci, anche se mancano le prove «accademiche» del suo asserto. Da tempo il viaggio reale verso Pescara ha cessato di essere definito «trasferimento» e si parla apertamente di fuga, pur se c’è chi si ostina a ritenerla necessaria per mantenere in territorio non occupato dai tedeschi (ma pure sempre dagli Alleati) quanto restava delle istituzioni.
Però all’alba del 9 settembre, viaggiando in affanno sulla Tiburtina, alle istituzioni non pensava nessuno. E quando, finita la guerra, una speciale Commissione giudicò i responsabili della mancata difesa di Roma, non si trovò un solo colpevole e tutto finì in assoluzioni e reintegri nelle carriere. Per molti, anche negli stipendi. Arretrati compresi.
Silvio Bertoldi
La missione dei due Ufficiali americani (di Enzo Biagi)
L’ammiraglio de Courten riferì, nella sua Relazione del 12 febbraio 1944, che Ambrosio gli chiese una motosilurante per portare un gruppo di ufficiali italiani da Gaeta ad Ustica dove, all’alba del 7, si sarebbe trovata una motosilurante inglese, la quale avrebbe ritirato gli ufficiali italiani per portarli a Palermo e consegnato due alti ufficiali anglo-americani, che avrebbero dovuto essere trasportati a Gaeta proseguendo poi per Roma.
Tra la sera del 5 e la mattina del 6 settembre venne concretata la missione della corvetta Ibis: partenza da Gaeta alle 20.00 del 6, arrivo a Ustica all’alba del 7, ritorno a Gaeta la sera del 7, a notte fatta. Affinché la missione si svolgesse in forma realmente segreta, non fu impartito per essa alcun ordine scritto, ma fu verbalmente incaricato di condurla il contrammiraglio Maugeri, Capo del Reparto Informazioni dello Stato Maggiore. La missione si svolse regolarmente e la corvetta, appena sbarcati a Gaeta i due ufficiali anglo-americani, fu fatta proseguire per la deserta rada di Porto Conte, in Sardegna, con l’ordine di restarvi in stretta quarantena “fino a nuova disposizione”.
Il generale Maxwell Taylor ricorda così la sua missione:

Dopo essere sbarcato a Gaeta fummo quindi condotti a Roma in ambulanza percorrendo la via Appia. «Eravamo in tre – mi disse -. Franco Maugeri, (che era l’ufficiale comandante il servizio segreto della Marina italiana poi accusato di spionaggio), il colonnello Gardner ed io. Viaggiando avevamo la possibilità di osservare che cosa stava succedendo soltanto da un finestrino laterale. Man mano che ci avvicinavamo, si vedevano sempre più soldati tedeschi. La città appariva assolutamente normale, le strade erano tranquille.
Siamo stati portati a Palazzo Caprara, dove avremmo dormito. L’incontro era fissato per il mattino seguente. Non ci aspettavamo questo programma, perché sapevamo bene quanto era urgente la nostra missione. Lo sbarco avrebbe dovuto avvenire soltanto due giorni dopo, il 9. Di conseguenza insistemmo perché il generale Badoglio ci ricevesse subito, in modo da discutere insieme la situazione. Non ci fu niente da fare. Anzi ci condussero in una sala dove troneggiava una tavola splendidamente preparata e ci servirono una cena pantagruelica fatta venire dal Grand Hotel. Pensi, c’erano perfino le crêpes Suzette! Carboni ci raggiunse dopo cena e noi dovevamo tentare di fargli capire la nostra grande fretta. Io insistei per vedere il primo ministro Badoglio.
La visita venne finalmente concordata telefonicamente abbastanza in fretta. Salimmo su un’auto e attraversammo Roma per raggiungere la residenza del maresciallo». Il marchese del Sabotino, sconvolto per il brusco risveglio, si presentò in vestaglia da camera, anche se quelli dello S.M. avevano lottato perché si infilasse brache e giubba regolamentare (alla vigilia di grandi eventi Badoglio dormiva sempre lo aveva fatto anche a Caporetto). «Mi resi conto – disse Taylor – che non sapeva che entro quella giornata – ed erano ormai le due del mattino dell’8 settembre – gli Alleati si aspettavano che annunciasse la cessazione delle ostilità».
Enzo Biagi
Il consiglio della Corona dell’8 settembre 1943
Il pomeriggio dell’ 8 settembre 1943 il Consiglio della Corona era riunito al Quirinale. L’ atmosfera era cupa, angosciata. La tragedia in corso pesava nell’ aria e nessuno sembrava conoscere con sicurezza la via d’ uscita. Il volto del re, freddo e impenetrabile, era emblematico del vuoto politico in cui era sprofondata l’ Italia. Anche il maresciallo Badoglio, vago e assente, simboleggiava col suo mutismo irresoluto il dramma della nazione. A quel punto, mentre l’armistizio era gia’ anticipato dagli alleati attraverso Radio Algeri, si assistette al bizzarro teatrino dei velleitarismi e delle insipienze. Circolava la strana idea che il documento, gia’ firmato dal generale Castellano, potesse essere ancora negoziato e procrastinato. Addirittura cancellato. Il generale Carboni, responsabile della difesa di Roma, spiegava perche’ era impossibile sganciarsi dall’alleanza coi tedeschi. Lo faceva con un tono secco e perentorio e le sue parole cadevano come gocce in un silenzio inerte. Fu allora che un giovane ufficiale si alzo’ e prese la parola ubbidendo a un impulso improvviso. Il suo nome era Luigi Marchesi e i gradi che portava sulla divisa erano quelli di maggiore degli alpini, il che faceva di lui quasi un intruso in quel consesso di ufficiali superiori. Infatti era stato invitato all’ultimo momento dal generale Ambrosio, il capo di Stato Maggiore generale di cui era assistente. Un suo intervento diretto non era previsto, ma la storia alle volte conosce singolari astuzie. Accadde cosi’ che le parole di Carboni suscitarono l’ indignazione del giovane Marchesi, il quale comincio’ a parlare, dapprima con calma, poi con crescente passione. Davanti al re, al presidente del Consiglio e a tutti i capi delle forze armate, prostrati davanti alla catastrofe, egli spiego’ perche’ non si poteva piu’ tardare neanche di un’ ora l’annuncio dell’ armistizio, secondo il comunicato che era gia’ nelle mani degli alleati. L’alternativa era un disastro inimmaginabile, dato che la parola era stata gia’ impegnata. Smentirla voleva dire coprirsi di ulteriore disonore, senza contare che nelle basi dell’Africa del nord erano gia’ pronti a decollare i bombardieri che avrebbero colpito senza pieta’ le citta’ italiane. Parlo’ Marchesi, in quell’ atmosfera irreale, e il re ascolto’ . Poi si allontano’ dalla sala e di li’ a poco fece conoscere la sua decisione: l’armistizio sarebbe stato subito proclamato. Cominciava un altro capitolo della tragedia nazionale.

Appena arrivato a Brindisi il re e imperatore si era sentito in dovere di giustificare le sue pavide azioni, richiamandosi in modo indecente, al bene supremo della Patria.
Proclama del Re trasmesso per radio da Brindisi il 10 settembre 1943 Per il supremo bene della Patria, che è stato sempre il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita e nell’intento di evitare più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta dell’armistizio. Italiani, per la salvezza della Capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità Militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale. Italiani, faccio sicuro affidamento su di voi per ogni evento, come voi potete contare fino all’estremo sacrificio, sul vostro Re. Che Iddio assista l’Italia in quest’ora grave della sua storia.
Vittorio Emanuele
Trentanove mesi prima lo stesso Re e imperatore, il giorno dopo la dichiarazione di guerra, da intrepido combattente qual’era, si era già trasferito in zona di operazioni, per meglio contribuire a pugnalare la Francia alle spalle, e aveva trasmesso agli italiani questo stomachevole proclama:
Proclama del re dell’11 giugno 1940S. M. il Re e Imperatore ha diretto ai soldati di terra, di mare e dell’aria il seguente proclama: ”Soldati di terra di mare e dell’aria: capo supremo di tutte le forze di terra, di mare e dell’aria, seguendo i miei sentimenti e le tradizioni della mia Casa, come 25 anni or sono, ritorno tra voi. Affido al Capo del Governo, Duce del Fascismo, Primo Maresciallo dell’Impero, il comando delle truppe operanti su tutte le fronti. Il mio primo pensiero vi raggiunge, mentre, con me, dividendo l’attaccamento profondo e la dedizione completa alla nostra Patria immortale, vi accingete ad affrontare, insieme colla Germania alleata nuove difficili prove con fede incrollabile di superarle. Soldati di terra, di mare e dell’aria, unito a voi come non mai, sono sicuro che il vostro valore ed il patriottismo del popolo italiano sapranno ancora una volta assicurare la Vittoria alle nostre armi gloriose.
Zona di operazioni, 11-6-1940-XVIII.
L’impressionante telegramma inviato da Eisenhower a Badoglio il pomeriggio dell’8 settembre 1943:
“Prima parte. Intendo trasmettere alla radio l’accettazione dell’armistizio all’ora già fissata. Se Voi o qualsiasi parte delle Vostre forze armate mancherete di cooperare come precedentemente concordato io farò pubblicare in tutto il mondo i dettagli di questo affare. Oggi è il giorno X ed io aspetto che Voi facciate la Vostra parte.
Seconda parte. Io non accetto il vostro messaggio di questa mattina posticipante l’armistizio. Il Vostro rappresentante accreditato ha firmato un accordo con me e la sola speranza dell’Italia è legata alla Vostra adesione a questo accordo. Secondo la vostra urgente richiesta le operazioni aviotrasportate sono temporaneamente sospese. Avete intorno a Roma truppe sufficienti per assicurare la momentanea sicurezza della città, ma io richiedo esaurienti informazioni secondo le quali disporre al più presto per l’operazione aviotrasportata. Mandate subito il generale Taylor a Diserta informando in anticipo dell’arrivo e della rotta dell’apparecchio. Terza parte. I piani sono stati fatti nella convinzione che Voi agivate in buona fede e noi siamo pronti ad effettuare su tale base le future operazioni militari. Ogni mancanza ora da parte Vostra nell’adempiere a tutti gli obblighi dell’accordo firmato avrà le più gravi conseguenze per il Vostro Paese. Nessuna Vostra futura azione potrebbe più ridarci alcuna fiducia nella Vostra buonafede e ne seguirebbe di conseguenza la dissoluzione del Vostro Governo e della Vostra Nazione.”
Generale Eisenhower
Fonti: piombino storia; Wikipedia
Una opinione su "Quel 3 settembre 1943 a Torre Cuba di Cassibile"