Pubblicato da Donato Barone il 12 Novembre 2021
Sono le dieci di sera di giovedì undici novembre (ieri, ndr) e mancano circa ventiquattro ore alla prevista fine della COP26. Fine prevista, ma non scontata, anzi, sicuramente rinviata a sabato o, secondo i più pessimisti, addirittura a domenica.
Solo il presidente della COP 26 crede di poter chiudere i lavori venerdì pomeriggio. Questo perché, nonostante gli annunci roboanti, a Glasgow non si sta combinando nulla di concreto. Dopo quasi due settimane di trattative, anni di incontri, vertici, bilaterali, trilaterali ecc., ecc., ecc., le decisioni che contano, non arrivano.
All’alba di mercoledì la presidenza della conferenza ha pubblicato tre documenti che rappresentano la bozza della dichiarazione finale della Conferenza delle Parti. A parte i soliti salamelecchi diplomatici consistenti nel riconoscimento della buona volontà delle Parti, dell’impegno profuso dai delegati e via cantando, il documento contiene solo un rinvio al 2022. Si, l’ultima chance è diventata la penultima e l’anno prossimo in Egitto le Parti sono invitate (badate bene, invitate) a presentare gli impegni nazionali volontari (NDC) ambiziosi. Ciò che ha fatto imbestialire le organizzazioni non governative, quelle ambientaliste ed i Paesi in via di sviluppo, è la mancanza di impegni stringenti su quelli che sono considerati i punti irrinunciabili perché, finalmente, la lotta al cambiamento climatico diventi effettiva: impegni stringenti sugli aspetti finanziari degli stati ricchi a favore di quelli poveri. Qualcuno si è divertito ad analizzare il testo della bozza scoprendo che le parole più usate sono “recognise”, “welcome” e “urges”, mentre quelle meno utilizzate sono state “requests” e “decides”. Ciò per evidenziare la scarsa assertività della bozza. Appunto: parole, soltanto parole.
Di trasferire, però, risorse dai Paesi ricchi a quelli poveri non ne vuole sapere quasi nessuno. Al di là delle parole di circostanza e prive di costrutto, un gruppo di negoziatori, guidati dagli Stati Uniti di J. Biden, stanno cercando di annacquare il più possibile gli impegni e spostare tutto a data da destinarsi. Tutto come da copione, ciò che succede oggi non è affatto diverso da ciò che succedeva ai tempi di Trump o di Obama: gli USA non pensano neanche lontanamente a regalare soldi ai Paesi in via di sviluppo senza congrue contropartite. In questo modo mi sono tolto una bella soddisfazione: quando il neoeletto presidente Biden disse che gli USA erano tornati, suscitò l’entusiasmo degli ambientalisti, ma, alla resa dei conti, le sue erano parole, soltanto parole.
Ciò appare strano alla luce del fantasmagorico accordo di ieri. Tutti i principali organi di comunicazione di massa hanno annunciato all’intero orbe terracqueo lo “storico” accordo tra Cina ed USA sul clima. Andando a leggere l’accordo, però, si resta molto delusi. In primis si tratta di un accordo bilaterale, in cui le due potenze si “impegnano” a cooperare per combattere i cambiamenti climatici, a ridurre le emissioni ed a contenere il riscaldamento globale entro i limiti dell’Accordo di Parigi. Si tratta, però, di impegni che non troveremo in nessun documento ufficiale della COP26 e di quelle successive. Se gli impegni verranno mantenuti, Cina ed USA si degneranno di far conoscere il modo in cui intendono combattere il cambiamento climatico entro il 2025 per il 2035. I maligni vedono in questo accordo un pericolo mortale per il multilateralismo: i due principali emettitori di diossido di carbonio (insieme rappresentano il 40% delle emissioni globali), potrebbero decidere in modo autonomo come e quando uscire dall’era dei combustibili fossili e dettare l’agenda al resto del mondo. A questo punto verrebbe meno ogni possibilità dei Paesi in via di sviluppo di tentare di incidere sulle decisioni globali. Le COP successive alla 26 sarebbero ancora più inutili, di quelle svoltesi fino ad oggi.
Cerchiamo, adesso, di capire lo stato dei negoziati tra le Parti. Le discussioni in corso vertono, essenzialmente sui seguenti temi:
- trasparenza: alcune delle Parti chiedono un meccanismo di controllo rigoroso delle emissioni e dell’adempimento degli impegni assunti, in particolare per evitare il doppio conteggio sia delle emissioni che dei fondi trasferiti. Si oppongono soprattutto i Paesi sviluppati, in quanto sarebbero vincolati a ridurre le emissioni ed ad aumentare i fondi da trasferire ai Paesi in via di sviluppo. Ciò ha reso molto complicato elaborare un testo condiviso. La bozza attuale prevede oltre 150 parentesi quadre (parole o frasi da inserire nel testo in modo alternativo e che, quindi, possono modificarne sensibilmente il senso e la portata) ed oltre 50 opzioni (sezioni piuttosto estese del testo tra loro alternative). Rispetto a ieri sono aumentate le opzioni e sono diminuite le parentesi, ma il livello di disaccordo resta elevato.
- flessibilità: i Paesi in via di sviluppo vorrebbero flessibilità nei vincoli alle loro emissioni, mentre desidererebbero vincoli stringenti per i Paesi sviluppati che, ovviamente, non ci stanno, per cui continua il tira e molla che rende fallimentari gli esiti delle COP.
- perdite e danni: è il capitolo più spinoso della trattativa. Da un lato i Paesi in via di sviluppo chiedono a quelli sviluppati di onorare i loro impegni finanziari (100 miliardi di dollari all’anno fino al 2025) e di aumentare tali investimenti dopo il 2025 (tra tremila e cinquemila miliardi di dollari all’anno). Su queste cifre le parti sono enormemente distanti e non credo realistico un accordo. E’ proprio in questa distanza siderale tra le richieste e le disponibilità che, secondo il mio modesto parere, bisogna cercare le ragioni dell’accordo tra Cina e Stati Uniti: in un colpo solo si possono trovare le strategie condivise per ridurre le emissioni, senza dissanguarsi finanziariamente, per far fronte alle fameliche richieste dei Paesi in via di sviluppo che, tra l’altro, chiedono, appoggiati dalle ONG e dai movimenti ambientalisti più radicali, di istituire un fondo separato per far fronte a questi impegni, in modo da escludere dal conteggio gli altri tipi di aiuti ricevuti.
Buona parte di queste complesse architetture tecnico-finanziarie sono contenute nell’art. 6 dell’Accordo di Parigi e le trattative su questo articolo sono ancora in alto mare: le bozze dei documenti sono piene di parentesi quadre e di opzioni. Se consideriamo, per esempio, i documenti che regolano i meccanismi previsti dai commi 2 (scambio dei certificati di emissione), 4 (mercati su cui avvengono tali scambi) e 8 (cooperazione al di fuori dei mercati di cui al comma 4), possiamo vedere che all’inizio della COP 26 contenevano oltre 400 parentesi ed opzioni. Dopo quasi due settimane di trattative il loro numero è diminuito a poco meno di 300, ma tale diminuzione riguarda solo il documento relativo al comma 8, mentre gli altri documenti sono restati quasi allo stesso livello di disaccordo. Nei prossimi giorni si tenteranno ulteriori limature, ma è giocoforza rinviare tutto a tempi migliori o, cosa più probabile, decidere tutto in incontri bilaterali fuori dalla Conferenza delle parti (come sembrerebbero voler fare Cina ed USA).
Mi rendo perfettamente conto che messa la questione in questi termini, la COP perde ogni fascino, ma questa è la materia del contendere e c’è ben poco da fare. I cortei multicolori, le dichiarazioni ad effetto, i proclami, i discorsi, gli eventi sono avvincenti e spettacolari, ma rappresentano solo la parte “mediatica” delle Conferenze delle Parti, le parole d’effetto, ma vuote di significato. La sostanza è racchiusa in questi documenti e, in questo caso, le parole pesano come macigni. Mettere una parola al posto di un’altra, potrebbe rappresentare la differenza tra la vita e la morte di una nazione. Ed i negoziatori stanno ben attenti a quello che fanno.
Per chiudere, un breve cenno a due eventi a latere della Conferenza.
In uno di essi alcune nazioni tra cui Francia, Danimarca e Italia, si sono impegnate a bloccare la ricerca di fonti fossili sui loro territori, quindi nessuna prospezione per individuare nuovi giacimenti di gas e petrolio. Possono, però, continuare ad estrarre dai giacimenti in corso di sfruttamento. In fatto di auto castrazione non ci batte nessuno!
Qualche maligno ha cercato di calcolare il peso delle estrazioni di idrocarburi cumulate di questi Paesi ambiziosi (o sconsiderati, dipende dai punti di vista): meno dell’1% del totale. Ancora parole, soltanto parole.
L’altro evento ha visto protagoniste le principali case di produzione automobilistiche. Alcune di esse si sono impegnate a cessare la vendita di veicoli a motore alimentati da combustibili fossili entro il 2040, ma molte altre hanno risposto picche, per cui fino al 2040 andremo avanti come se nulla fosse, poi si vedrà: in venti anni può succedere di tutto! E non è finita qui: la vendita sarà sospesa solo nei principali mercati. Cosa vorrà dire?
Sembra che il premier britannico B. Johnson ci sia rimasto molto male: sperava che aderissero tutti.
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