Pubblicato da Donato Barone il 14 Novembre 2021
Parafrasando il titolo di uno degli ultimi film di Nanni Loy, uscito negli anni novanta del secolo scorso, con queste parole potremmo definire gli esiti della COP 26, conclusasi nella tarda serata del 13 novembre, oltre ventiquattro ore dopo il termine programmato.
Questa Conferenza delle Parti, opportunamente sintetizzata (oltre duemila ore di negoziati non potrebbero rientrare in nessun film che si rispetti), potrebbe degnamente figurare in uno degli episodi del film di Nanni Loy, al fianco, per esempio, di quello in cui i protagonisti fanno imbarcare i passeggeri su di un traghetto, incassando i prezzi dei relativi biglietti, salvo poi scoprire che il traghetto era in manutenzione e, quindi, non sarebbe mai salpato.
Come si potrebbe definire diversamente, infatti, una COP alla fine della quale il Presidente, in lacrime, annuncia la risoluzione finale (che termine più infame di così non hanno potuto trovare), chiedendo scusa, per non essere stato in grado di proporre un testo all’altezza delle aspettative e, subito dopo, sentire il primo ministro britannico che pomposamente annuncia la firma dello “storico Patto di Glasgow”?
Perché di questo si tratta, un gigantesco “greenwashing” spacciato per accordo storico. Un compromesso al ribasso cui i Paesi in via di sviluppo e quelli “ambiziosi” sono stati costretti per non perdere la faccia, dopo una campagna mediatica senza precedenti che ha preceduto ed accompagnato la COP 26. Intorno alla Conferenza, infatti, c’è stata un’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa che non si vedeva dalla COP 21 di Parigi.
Procediamo, però, in maniera ordinata, altrimenti non si capisce nulla.
Nel pomeriggio di sabato 13 viene pubblicata la terza bozza della risoluzione finale della COP 26. Ricalca, essenzialmente, le prime due versioni salvo piccoli aggiustamenti. Nel corso della plenaria informale, durante la quale essa viene presentata, molti delegati prendono la parola e chiedono aggiustamenti. La spuntano, alla fine, India e Cina che riescono ad ottenere un “annacquamento” della parte relativa all’uscita dall’era dell’utilizzo del carbone quale fonte energetica. Nelle versioni iniziali si parlava di “accelerare gli sforzi per l’eliminazione senza tregua del carbone”, ma la presa di posizione di Cina ed India ha fatto si che la frase diventasse: “accelerare gli sforzi per la diminuzione senza tregua del carbone”. E’ stata cambiata una sola parola (diminuzione al posto di eliminazione) che, però, ha modificato completamente il senso di tutto il discorso: significa che il carbone potrà essere utilizzato, ma si dovrà ridurne l’uso. Entro quando tempo? E come? Non si sa. Della portata della cosa si sono resi conto tutti. Se ne è reso conto il presidente Sharma che, in plenaria ha detto: “capisco la delusione, ma è vitale proteggere questo pacchetto”.
Così come se ne è reso conto il rappresentante dell’UE Timmermans che nel suo intervento durante la plenaria informale ha detto: “Per l’amor del cielo, vi imploro, adottate questo testo, fatelo per i nostri figli, non ci perdoneranno se falliamo oggi”
La frase sibillina pronunciata dal ministro Sharma, rappresenta l’architrave del “pacchetto” o, per dirla alla napoletana maniera, del pacco. Tradotto in termini più espliciti si spaccia per accordo epocale un documento che aggiunge poco o niente alla situazione attuale. Per comprendere il clima in cui è stata completata la definizione del “pacchetto”, sarebbe stato necessario seguire in diretta gli interventi dei vari delegati. Chi scrive ha avuto la pazienza di farlo, grazie al sito Earth Negotiations Bulletin che, in tempo reale, metteva in linea il sunto degli interventi dei delegati.
Avremmo visto il rappresentante degli USA J. Kerry, spalleggiato dal rappresentante dell’UE, al centro di capannelli di delegati dei Paesi in via di sviluppo che opponeva un netto rifiuto alle loro richieste di istituire un fondo apposito, per fronteggiare i danni e le perdite conseguenti ai provvedimenti da prendere per essere ambiziosi. Perché, al fondo della questione, c’è la richiesta dei Paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo, di rinunciare allo sviluppo, per ridurre le emissioni, ma non vogliono fornire i fondi per poter consentire anche a questi Paesi di poter vivere in maniera adeguata. Il “pacco”, in fin dei conti, è il seguente. I nostri scienziati ci dicono che bisogna azzerare le emissioni nette entro il 2050, per mantenere l’incremento delle temperature globali entro 1,5°C rispetto all’era pre-industriale. Per farlo dobbiamo ridurre tutti le emissioni, ricchi e poveri. Mentre per i Paesi ricchi la cosa comporta sacrifici, ma non determinerà una riduzione drastica del tenore di vita, se i loro cittadini cambiano, però, stile di vita; per i Paesi poveri ridurre le emissioni, significa dire addio ai sogni di sviluppo e, quindi, continuare a vivere nella miseria. A meno che i Paesi ricchi non decidano di finanziarli con migliaia di miliardi di dollari all’anno.
E qui entra in gioco l’ipocrisia dei rappresentanti dei Paesi sviluppati, USA ed EU in testa. Non vogliono sentir parlare di allentare i cordoni della borsa e pretendono che tutti siano ambiziosi. I rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo hanno cercato, fino all’ultimo, di far decidere in merito al famigerato fondo, per far fronte agli altrettanto famigerati “loss and damage”, ma sono riusciti ad ottenere un generico ed assolutamente non vincolante “impegno” ad “aumentare” le cifre decise nelle precedenti COP (da cento a duecento miliardi di dollari all’anno, si dice) senza sapere, però, a partire da quando. E’ ovvio ed anche giusto, secondo me, che, a questo punto, Cina ed India si siano impuntate ed abbiano annacquato le limitazioni all’uso del carbone, rifilando ai Paesi sviluppati il “contropaccotto”: niente soldi, niente ambizione. In questo modo i governi dei Paesi sviluppati avranno l’onere di spiegare alle loro opinioni pubbliche che, nel frattempo, sono state aizzate ad arte a chiedere obiettivi “ambiziosi” dai gruppi di pressione socio-economici-ambientalisti, come faranno a raggiungere l’obiettivo di mantenere l’incremento di temperatura globale entro 1,5°C. Perché questa è l’altra parte dell’imbroglio: questo obiettivo è restato nel testo finale, ma alla luce degli impegni presi e, in mancanza di maggiore ambizione, è solo polvere negli occhi e nulla più. A proposito di impegni (i famosi NDC) nel documento si parla di ridurre le emissioni del 45% nel 2030 rispetto al 2010 e si invitano le parti a presentare impegni più ambiziosi nel 2022 per il 2030. Se ciò non dovesse accadere e nulla garantisce che accada, addio 1,5°C.
Un risultato bisogna riconoscere che è stato raggiunto: per la prima volta si parla esplicitamente di accelerare la fine dell’utilizzo del carbone come fonte energetica, ma non si specifica né come e né quando. Ciò è stato sufficiente per far gridare a tutti: svolta epocale, è finita l’era del carbone. Tutti dimenticano, però, che la transizione energetica dal carbone verso altre fonti energetiche è in atto da circa un secolo, tanto che essa è diventata una fonte energetica residuale per gran parte del mondo industrializzato occidentale. Altro aspetto che, però, pochi hanno notato è che nella risoluzione finale della COP 26 è scritto che è necessario aumentare “rapidamente la diffusione della generazione di energia pulita”. Si parla esplicitamente di energia pulita e non di energia rinnovabile. Secondo qualche osservatore ci potremmo trovare di fronte ad una prima timida apertura al nucleare. Vedremo.
Questo il succo delle cose, il resto sono solo chiacchiere o, se vi aggrada, parole, parole, soltanto parole. Il giorno successivo a quello in cui si è compiuto il misfatto, se ne sono resi conto un poco tutti: B. Johnson, il Papa, le ONG e via cantando. Ed i commenti euforici hanno ceduto il posto a riflessioni più pacate.
Tutto questo per restare alla risoluzione finale della COP 26. Chi volesse esaminare personalmente il documento, non deve fare altro che cliccare qui.
Oltre alla decisione finale della COP 26, i cosiddetti corpi separati hanno approvato altri documenti di tipo più tecnico. In particolare è stato concordato il regolamento per l’applicazione dell’art. 6 dell’Accordo di Parigi, ma anche persone più preparate di me nel dipanare le complesse trame dei testi ONU, si sono presi un po’ di tempo per decifrarli, tanto sono contorti ed incomprensibili. Basti dire che, finalmente, è stato definito un formato per comunicare i dati relativi alle emissioni, ma non sembra che sia stato risolto il problema del doppio conteggio delle emissioni. E’ stato definito, infine, un mercato globale del carbonio, ma restano da stabilire i dettagli e, in particolare, il costo globale delle emissioni. Questa è, però, una sfida ardua che non finisce a Glasgow.
Concludendo, quella di Glasgow è stata l’ennesima COP interlocutoria e tutto è rinviato al prossimo anno. Alla fine della fiera restano i commenti soliti: la gente non tollererà un’altra COP come questa. Sono anni che sento questa frase, ma sono anni che le COP si ripetono sempre uguali a se stesse: non sono mai un traguardo, ma sempre un punto di partenza.
Arriveremo mai da qualche parte?
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