Pubblicato da Donato Barone il 1 Dicembre 2021
Qualche giorno fa, commentando un articolo dell’amico F. Zavatti, riflettevo ad alta voce sulla scarsa conoscenza dei fondamenti fisici del clima terrestre. Appena dopo aver inviato il commento, sono incappato in un recentissimo articolo pubblicato su Science Advance:
Rapid Atlantification along the Fram Strait at the beginning of the 20th century
L’articolo è firmato da una quindicina di ricercatori, in gran parte italiani e, da ora in avanti, lo indicherò con Tesi et al., 2021 (T. Tesi è la prima firma dell’articolo).
L’amplificazione artica, ovvero la maggior velocità con cui si riscalda la regione artica rispetto al resto del mondo, è considerata da molti la pistola fumante del cambiamento climatico in corso ed è attribuita essenzialmente alle attività umane. Secondo altri si tratta, invece, di un rimbalzo conseguente alla fine della LIA (Little Ice Age o Piccola Era Glaciale) e, quindi, avente cause prettamente naturali. Secondo altri è, infine, il frutto della carenza di stazioni di misura nell’area e, quindi, rappresenta un artefatto conseguente alle pesanti interpolazioni che vengono effettuate, per “coprire” aree del tutto prive di dati strumentali.
Secondo me è frutto di tutte queste cose messe insieme. Esistono, cioè, cause naturali, antropiche ed errori sistematici che hanno creato il problema e noi non siamo in grado di quantificare l’incidenza delle tre cause indicate, nel determinare il fenomeno. Altro aspetto importante della questione riguarda l’incapacità dei modelli climatici di rappresentare il fenomeno.
I dati strumentali a disposizione (misure satellitari, misure a terra ed in mare) risalgono agli anni ’30 del secolo scorso e da allora il trend delle temperature regionali (marine, terrestri ed atmosferiche) è costantemente in salita. Tesi et al., 2021 si è posto il problema di ricostruire il trend del processo di “atlantificazione” del Mar Glaciale Artico (Oceano Artico secondo la tradizione anglosassone) negli anni che precedono la rivoluzione industriale.
Cerchiamo di capire, ora, il concetto di atlantificazione. Con tale termine si intende il processo attraverso il quale le condizioni del Mar Glaciale Artico, evolvono verso quelle tipiche dell’Oceano Atantico.
L’Artico è un mare caratterizzato da sue specifiche peculiarità: è più freddo e meno salato del resto dell’Atlantico e ciò a causa di particolari condizioni idrografiche che tendono ad isolarlo dal resto dell’Oceano Atlantico. Nel corso del tempo le condizioni del Mar Glaciale Artico sono cambiate e, in particolare, esso si sta scaldando e la sua salinità sta aumentando, in altre parole sta assumendo caratteristiche che lo portano a somigliare sempre di più all’Oceano Atlantico. Secondo la vulgata corrente, il processo di atlantificazione dell’Artico è iniziato durante il secolo scorso e, precisamente, intorno alla sua metà.
Secondo alcuni studi che abbiamo avuto modo di commentare in modo esteso su queste pagine qualche anno fa, applicando l’analisi di Granger ai dati delle temperature, condizionate dalla concentrazione atmosferica del diossido di carbonio e della radiazione solare, si scopre che, fino alla metà del 20° secolo, è la variazione della radiazione solare a determinare le temperature, mentre a partire dalla metà del secolo le cose cambiano e, quindi, le temperature sono determinate dalla concentrazione atmosferica di anidride carbonica. A questo punto possiamo fare tutte le obiezioni del caso: che correlazione non è causazione, che la causalità di Granger non è causa fisica, ecc., ecc..
Resta, però, questo cambiamento nel comportamento della variabile temperatura rispetto alle altre due variabili che deve far riflettere.
Un semplice sguardo ai grafici delle temperature globali o regionali (come quello elaborato da F. Zavatti e L. Mariani e visibile nella pagina principale di CM), consente di renderci conto che è proprio in quel periodo che si è avuta una variazione nella pendenza della curva delle temperature in funzione del tempo e, quindi, è a partire da quel periodo che si inizia a parlare di riscaldamento globale o, in modo ancor più generale, di Antropocene.
Ed è proprio a partire da quel periodo che il livello di concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera comincia ad assumere valori preoccupanti, in quanto supera quelli che si considerano valori normali.
Spostare più indietro i segnali di un riscaldamento, anche se regionale, dell’area artica, renderebbe molto più deboli le argomentazioni di chi attribuisce esclusivamente all’azione dell’uomo il fenomeno del riscaldamento in atto. Ebbene, ciò è quanto farebbe supporre Tesi et al., 2021. Secondo l’articolo, infatti, è dagli inizi del secolo scorso che è iniziata l’atlantificazione e, quindi, il riscaldamento del Mar Glaciale Artico e gli autori danno anche una spiegazione del fenomeno: è una conseguenza della fine della LIA.
Cercherò, ora, di spiegare brevemente il modo in cui è stato condotto lo studio e le metodologie utilizzate dai ricercatori. Tesi e colleghi hanno condotto una ricerca su diversi dati di prossimità, per poter individuare le condizioni che caratterizzavano il Mar Glaciale Artico nel corso degli ultimi ottocento anni e, precisamente, a partire dalla fine del 1200. L’area indagata è quella dello stretto di Farm, un braccio di mare compreso tra la maggiore delle isole Svalbard e la Groenlandia. Tale stretto si trova in un punto particolare del Mar Glaciale Artico: in esso confluisce una corrente calda che si dirama dalla Corrente del Golfo, detta West Spitsbergen Current (WSC) e due correnti fredde (la Corrente della Groenlandia Orientale e la Corrente dello Spitsebergen Orientale). Esso è collocato, infine, poco a nord del vortice sub polare atlantico. E’ proprio la corrente calda dello Spitsbergen occidentale a rendere lo stretto di Fram libero dai ghiacci per gran parte dell’anno. In quest’area, inoltre, il processo di sedimentazione è caratterizzato da una velocità di deposizione dei sedimenti relativamente alta e, quindi, è possibile individuare una precisa stratigrafia con risoluzione quinquennale o decennale. La datazione precisa è stata possibile grazie all’individuazione di una sostanza organica (retene) legata alla produzione di carbone in una miniera locale aperta nel 1916.
Tesi et al., 2021 ha studiato una carota estratta dai sedimenti depositatisi a poca distanza dalla costa occidentale dell’isola di Spitsbergen, sul lato orientale dello stretto. In tale carota sono relativamente abbondanti alcuni elementi che rappresentano dati di prossimità di diversi parametri marini, idonei a determinare il grado di atlantificazione di questo particolare settore del Mar Glaciale Artico.
Lo studio ha campionato la presenza di diverse componenti organiche dei sedimenti: il tasso di lipidi provenienti da un particolare microrganismo (Thaumarchaeota), il tasso di un alchenone derivante da un’alga unicellulare (Emiliania huxleyi) ed alcuni foraminiferi bentonici (Adercotryma glomeratum e Nonionellina labradorica).
I lipidi di Thaumarchaeota possono essere considerati una specie di termometro biologico delle acque polari e sub polari. La quantità di lipidi è direttamente collegata all’abbondanza dei microrganismi e questa dipende, a sua volta, dalle condizioni marine, in particolare dalla quantità di luce e dalla temperatura della massa liquida che è una conseguenza del grado di rimescolamento delle acque. Quando le acque sono rimescolate, infatti, cala la quantità di lipidi contenuta nei campioni, per cui abbondanza di lipidi è sinonimo di acque poco rimescolate e ciò corrisponde ai periodi in cui il ghiaccio copre la superficie del mare, ovvero i periodi invernali. La concentrazione di lipidi di Thaumarchaeota è piuttosto abbondante, fino alla fine del 1800, poi tende a diminuire, segno che la copertura glaciale è diminuita.
Allo scopo di confermare queste ipotesi, gli autori hanno studiato un alchenone proveniente dall’alga Emiliania huxleyi che è sensibile alle temperature superficiali del mare nel periodo primaverile/estivo. Confrontando le temperature ricostruite sulla base dei lipidi originati da Thaumarchaeota, con quelle ottenute a partire dall’alchenone, si vede che le prime sono più basse delle seconde e ciò conferma che Thaumarchaeota ha misurato le temperature invernali.
Un’ulteriore conferma che la copertura dei ghiacci influenza la presenza di Thaumarchaeota, è stata fornita dal confronto tra la copertura dei ghiacci desunta da resoconti di navi mercantili e le temperature desunte dai lipidi: in corrispondenza di una maggiore copertura glaciale si registra un aumento della concentrazione di lipidi e, quindi, a temperature più alte della massa d’acqua, in conseguenza di minori perdite di calore a causa dell’isolamento termico garantito dal ghiaccio.
Altro aspetto interessante di tutta la vicenda è che mentre le temperature desunte dai lipidi sono più o meno costanti nel corso del tempo fino alla fine della LIA, quelle desunte dall’alchenone sono costantemente in diminuzione per tutta la durata della LIA. Ciò porterebbe a concludere che durante la LIA i ghiacci marini erano più estesi e permanevano per più tempo: la cosa non sorprende in un periodo freddo come quello che stiamo considerando.
Alla fine della Piccola Era Glaciale tutto diventa molto più instabile. Tanto le temperature dedotte dai lipidi che quelle dedotte dall’alchenone presentano forti oscillazioni che non erano presenti nei secoli precedenti in forma così marcata.
Ed a questo punto ho fatto un salto sulla sedia, ho dovuto leggere diverse volte il passo e guardare attentamente i dati: i dati di prossimità NON evidenziano alcun riscaldamento delle acque dell’Oceano Artico!
Il riscaldamento si nota, invece, nelle temperature atmosferiche ricostruite da una carota di ghiaccio proveniente dalle isole Svalbard. Che cosa è successo?
Tesi et al., 2021 avanzano una spiegazione che sembra plausibile, ma mi lascia un po’ scettico: l’arretramento del fronte glaciale determina un raffreddamento delle acque superficiali a causa dell’acqua proveniente dalla fusione dei ghiacci marini, più fredda di quella del mare, creando le condizioni per un forte rimescolamento delle acque lungo la colonna stratigrafica e determinando anomalie nella fioritura di alghe che si ripercuotono nelle oscillazioni delle percentuali di lipidi ed alchenoni che si rinvengono nei sedimenti. Detto in altre parole, potremmo trovarci di fronte ad un’incongruenza dovuta alle variazioni delle condizioni ambientali conseguenti, a loro volta, alle mutate condizioni idrografiche verificatesi alla fine della LIA.
Potrebbe essere, ma chi ci garantisce che nel passato le cose siano andate diversamente? Nel passato tanto le ricostruzioni con gli alchenoni che quelle desunte dalla carota di ghiaccio concordano, perché cominciano a divergere proprio alla fine della LIA?
Detto fuori dai denti il tarlo del dubbio si è insinuato nel mio cervello, per cui ho continuato a leggere l’articolo, ma con uno spirito diverso: per prima cosa ho cambiato il titolo di questo post.
E veniamo, ora, ai foraminiferi. A. glomeratum è un micro crostaceo la cui abbondanza rappresenta un dato di prossimità della salinità del mare. Nella carota sedimentaria l’abbondanza del crostaceo si mantiene grossomodo costante per centinaia d’anni, poi all’inizio del 20° secolo cresce in modo repentino, segno che è aumentata la salinità dell’acqua, ovvero che è iniziato il processo di atlantizzazione del Mar Glaciale Artico. Per quel che riguarda le temperature, Tesi et al., 2021 ha fatto ricorso al foraminifero N. labradorica e, in particolare all’isotopo 18 dell’ossigeno presente nel suo guscio: esso, come sappiamo, è un dato di prossimità della temperatura. Sulla scorta di tale indagine è risultato un aumento della temperatura del mare: un’ulteriore conferma dell’atlantificazione. Quello che si desume dall’analisi dei dati di prossimità desunti dai foraminiferi, differisce, però, da quanto risulta dall’esame dei lipidi e dell’alchenone, per cui i dubbi circa i risultati conseguiti restano.
A questo punto, assodato, secondo Tesi e collaboratori che l’atlantificazione dell’Artico è iniziata con la fine della LIA, resta da stabilirne le cause. Secondo i ricercatori esse vanno individuate nell’indebolimento dell’AMOC e del Vortice Sub Polare. In particolare l’indebolimento del Vortice Sub Polare avrebbe consentito alle acque calde, veicolate dalla Corrente del Golfo, di penetrare più in profondità nell’Artico, accelerando la fusione dei ghiacci polari marini. Nell’articolo non viene chiarito il motivo per cui si sarebbe verificato un rallentamento di AMOC: gli autori si limitano a rinviare a tre articoli in cui ciò sarebbe spiegato. Tra questi l’articolo di S. Rahmstorf et al., 2015 che pochi giorni fa ha commentato l’amico F. Zavatti, evidenziando tutta una serie di dubbi e perplessità che non ho avuto difficoltà a condividere.
Alla fine di tutto, come è consueto nel mondo della climatologia, Tesi e colleghi, hanno cercato di validare con un paio di modelli climatici i risultati del loro studio, ma i modelli hanno fatto fiasco: dell’atlantificazione precoce dell’Artico, non vi è traccia nei loro output. I ricercatori hanno concluso che, probabilmente, i modelli non tengono conto in modo opportuno della circolazione atlantica e io mi sento di condividere pienamente questa loro conclusione. In altre parole non siamo ancora in grado di capire quali sono le cause della famigerata amplificazione artica che, pertanto, continua a restare una sconosciuta. Nel frattempo centinaia di ricercatori si ostinano a modellare il sistema climatico terrestre, tracciando scenari sempre pià apocalittici: ci restano dieci anni per fermare il riscaldamento globale, poi sarà la catastrofe, ce lo dicono gli scienziati. Questo è il ritornello che per giorni e giorni si è sentito a Glasgow e che continua a sentirsi a destra ed a manca. Eppure ogni tanto si scopre che questo o quel pezzo del puzzle climatico, ci sfugge. Eppure, vittime della sindrome della mosca cocchiera, siamo talmente presuntuosi da reputarci in grado di modellare matematicamente ciò che non conosciamo.
Per chiudere il discorso qualche considerazione personale. Tesi et al., 2021 descrive una ricerca piuttosto complessa, in cui gli scienziati hanno cercato di comprendere con l’uso di diversi dati di prossimità, le complesse dinamiche del clima artico. Hanno individuato diverse incongruenze e con grandissima onestà intellettuale non ne hanno nascosta nessuna: non capita spesso negli articoli scientifici che si occupano di climatologia. Hanno cercato di conciliare le loro conclusioni con delle ipotesi che non mi sento di condividere fino in fondo, ma che non sono peregrine. Hanno riconosciuto, infine, che non siamo ancora in grado di comprendere appieno l’entità del contributo antropico e naturale alle dinamiche climatiche (relativamente all’Artico, nel nostro caso) e, quindi, ci hanno messo in guardia sulle conclusioni erronee cui potremmo giungere, se non consideriamo tutti questi limiti. In complesso un buon lavoro che mi ha conciliato con una parte della ricerca scientifica in ambito climatologico.
Il Modern Maximum è finito, sotto ogni aspetto
I TEMPI FREDDI stanno tornando, le medie latitudini si stanno RAFFREDDANDO in linea con la grande congiunzione, l’attività solare storicamente bassa, i raggi cosmici che nucleano le nuvole e un flusso di corrente a getto meridionale (tra le altre forzature).
Sia il NOAA che la NASA sembrano concordare, se si legge tra le righe, con NOAA che afferma che stiamo entrando in un grande minimo solare ‘in piena regola’ alla fine del 2020, e la NASA vede questo prossimo ciclo solare (25) come “il più debole degli ultimi 200 anni“, con l’agenzia che mette in correlazione i precedenti spegnimenti solari a periodi prolungati di raffreddamento globale qui.
Inoltre, non possiamo ignorare la moltitudine di nuovi articoli scientifici che affermano l’immenso impatto che il Beaufort Gyre potrebbe avere sulla Corrente del Golfo, e quindi sul clima in generale.

Grande minimo solare
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Inversione magnetica dei poli
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3 pensieri riguardo “L’amplificazione artica, questa sconosciuta”